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Giurisprudenza Penale

E’ omicidio preterintenzionale se intervento privo di rilevanza cagiona decesso del paziente

Qualora il chirurgo sottoponga il paziente ad un intervento non necessario,  in caso di morte del paziente risponde di omicidio preterintenzionale di cui all’art. 586 C.P.

Questo è quanto stabilito dalla pronuncia della Suprema Corte, sez. Penale n. 34983 del 2020, con cui i Giudici hanno ritenuto che, in caso di omicidio colposo nell’esercizio della professione, la responsabilità di condotte mediche, anzitutto chirurgiche, debba essere valutata e motivata dalla finalità terapeutica per cui tale intervento è stato posto in atto, tenendo anche conto di quanto lo stesso possa essere funzionale alla cura del paziente.

Ne deriva che, solo nel caso in cui l’attività medico chirurgica sia sorretta da una ragionevole indicazione terapeutica, o tale indicazione sia ritenuta in buona fede dall’agente comunque sussistente con valutazione ex ante, la relativa attività deve considerarsi lecita e sindacabile sotto l’esclusivo profilo della colpa, in ipotesi di errore operatorio ascrivibile a negligenza, imprudenza o imperizia.

Qualora, invece, l’intervento operatorio sia posto in essere in assenza di qualsiasi ragionevole indicazione terapeutica, con condotta consapevolmente estranea o distorta rispetto alle finalità diagnostiche o di cura, la condotta del Medico si traduce in una attività di natura dolosa.

Conseguentemente, risponde di omicidio preterintenzionale il Medico che sottopone il paziente a un intervento, dal quale ne sia derivata la morte, in assenza di finalità terapeutiche, ovvero per fini estranei alla tutela della salute del paziente, ad esempio provocando coscientemente una inutile mutilazione, o agendo per scopi estranei (scientifici, dimostrativi, estetici o didattici), non accettati dal paziente.

Viceversa, non ne risponde il medico che sottopone il paziente ad un trattamento non consentito ed in violazione delle regole dell’arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica. In tali casi, difatti, la condotta non è diretta a ledere e se sopravviene la morte del paziente, il medico ne risponderà a titolo di omicidio colposo, ove l’evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare.

Solamente l’intervento chirurgico non finalizzato ad uno scopo terapeutico, anche di natura palliativa, cessa di essere un atto medico che trova la sua legittimazione nell’art. 32 Costituzione, relativo al fondamentale diritto alla salute e non si differenzia dalla condotta di qualunque altro soggetto che leda volontariamente l’integrità fisica altrui.

Nello specifico, veniva preso in considerazione il caso di un dirigente medico e del suo primo aiuto, che svolgevano numerosi inutili interventi chirurgici, finalizzati esclusivamente a incrementare il rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale in favore della Casa di Cura privata nella quale svolgevano la loro attività professionale.

Il Diritto (legge e dottrina) ha sempre considerato come una esimente, la possibilità di tagliare, amputare e incidere un corpo umano a fini di cura, come. Conseguenza di ciò, è che l’aver operato in assenza di valido motivo curativo e di valido consenso (ed è valido il consenso espresso in presenza di corrette indicazioni, vale a dire quando la necessità dell’intervento rappresentata dal medico corrisponda al vero) costituisce il delitto di lesioni volontarie (omicidio volontario in caso di esito letale).

Il consenso del paziente che, se espresso volontariamente e nei limiti di cui all’art. 5 c.c., preclude la possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, assumendo efficacia scriminante, non è necessario in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o nelle ipotesi previste dalla legge.

Al contrario, in presenza di una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all’intervento terapeutico, l’atto, dichiarato “terapeutico”, costituisce una indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente, ma anche della sua integrità.

OMICIDIO VOLONTARIO O PRETERINTENZIONALE?

A questo punto il problema è costituito dalla qualificazione del descritto comportamento illecito. La tesi più severa propende per inquadrare un simile comportamento quale omicidio volontario, in considerazione del fatto che il medico ha agito volontariamente e senza consenso.

La giurisprudenza più avveduta però, prendendo atto della assenza in ogni caso in capo al chirurgo di un animus necandi, ha inquadrato una vicenda come quella in esame sotto il profilo della preterintenzionalità: in buona sostanza si ritiene accertata l’esistenza della volontà di ledere nell’effettuare un intervento chirurgico ingiustificato ma non quella di uccidere.

Più chiaramente: se il chirurgo, nel porre in essere il suo intervento non necessario, si è rappresentato il rischio concreto della morte del paziente, tale esito sarà considerato omicidio volontario. Ciò perché il rischio morte deve essere accettato come “evento definito e concreto…ponderato dall’autore del reato come costo accettato dell’azione realizzata …per il caso che esso si verifichi come conseguenza anche non direttamente voluta della propria condotta”(Sez.Un.sent.n.38343/2014-Sez.V sent.n.34983/20).

In caso contrario, cioè ove il chirurgo non avesse motivo di ritenere la sussistenza di un rischio esiziale, si troverà nella situazione di colui che, intendendo solo recare una lesione (in tal caso il taglio del bisturi) a taluno, ne abbia imprevedutamente causato la morte, risponderà cioè di omicidio preterintenzionale, un reato pertanto molto meno grave.

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