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giurisprudenza penale

Un solo consulente tecnico non basta per condannare

La valutazione della responsabilità medica non può prescindere dal confronto dialettico delle opposte argomentazioni dei consulenti

Il caso

Un bambino veniva portato alle 8 del mattino al pronto soccorso lamentando dolori addominali e pregressi episodi di vomito. Tutti i sintomi deponevano per una chetoacidosi diabetica, diagnosi con la quale il piccolo veniva ricoverato e sottoposto ad una terapia di riequilibrio dei liquidi, con monitoraggio e analisi frequenti (15 prelievi di sangue in 12 ore).

Dalle ore 8 alle 20 quando sia la pediatra che l’aveva in cura che il primario, terminato il turno, si allontanavano dalla struttura e venivano sostituiti da altro specialista, in queste 12 ore il bambino aveva semplicemente lamentato dolori addominali che peraltro si manifestavano alla palpazione profonda e quindi non erano espressione di addome acuto. Inoltre, pur essere lievemente soporoso il piccolo paziente non perdeva mai lucidità e i valori, battito cardiaco incluso, si mantenevano nella norma.

Verso le 23 vi era un brusco peggioramento delle sue condizioni e nell’arco di 4 ore si manifestata un episodio di vomito “caffeano” e un peggioramento dei dolori per i quali si effettuava una ecografia che rivelava una distensione dell’addome. Sopraggiungeva quindi una perdita di coscienza e verso le 8 del mattino successivo il bambino moriva. Una successiva autopsia rivelava l’esistenza di un volvolo intestinale cui veniva attribuita la causa del decesso, sottovalutando peraltro gli altissimi livelli di potassio in presenza di un’incapacità ad urinare manifestatasi anch’essa durante la notte. L’autopsia non consentiva tuttavia di stabilire a che ora si fosse creata la torsione intestinale con effetto occlusivo.

Il problema

La questione controversa era costituita dal fatto che pacificamente tutti i consulenti tecnici, compresi i due CT del PM, concordavano sul fatto che la diagnosi d’ingresso, attesa la sintomatologia, fosse stata assolutamente corretta. Il problema era dunque comprendere in quale momento i sintomi avrebbero dovuto indurre un dubbio tale da portare ad effettuare esami strumentali che potessero indurre ad una diagnosi differente.

Infatti, se nessun dubbio vi era in ordine al fatto che il peggioramento avvenuto alle ore 23,episodio di vomito caffeano, e il risultato della diretta addome avrebbero dovuto portare ad un più tempestivo intervento chirurgico forse risolutivo, tra i due consulenti del PM si manifestava in sede dibattimentale (purtroppo non prima, nella approssimativa relazione redatta per il PM in sede di indagini) un netto e insanabile contrasto (peraltro a distanza non essendo stata cura del giudice ascoltarli nella medesima udienza per porli a confronto diretto) riguardo al momento in cui i valori delle analisi e i sintomi evidenti avrebbero dovuto indurre qualche dubbio sulla correttezza della diagnosi. Infatti uno dei due riteneva che sin da un’ora dopo il ricovero si fossero manifestate delle alterazioni significative, ma si limitava poi a fare generico riferimento a mutamenti di valori e battito cardiaco senza mai agganciarsi specificamente ad un orario e ad uno dei rilievi; l’altro era netto nel dire che con ragionamento ex ante risultava impossibile dubitare della correttezza della diagnosi iniziale sino alle ore 23, ovvero sino a 15 ore dopo il ricovero. Successivamente cioè al cambio di turno.

Tale tesi veniva sostenuta anche da un consulente di parte, quello della pediatra che aveva curato il ricovero ed era rimasta sino alla fine del primo turno, il quale peraltro suffragava la propria tesi con ampi riferimenti ai risultati delle analisi, ai sintomi manifestati ora per ora e ad ampia ed autorevole dottrina. Svolgendo così in lavoro che, per completezza e dovizia particolare di riferimenti, era già completo di quello redatto dai consulenti del PM.

Il comportamento del giudice di merito

A fronte di un simile contrasto, l’agire dei giudici di merito, Tribunale e Corte d’Appello, appariva teso ad escludere un approccio adeguatamente ed equilibratamente dialettico all’accertamento della verità. Infatti il tribunale, in base a un cavillo procedurale, escludeva l’ascolto del CT del primaio ed inoltre rifiutava, pur a fronte del contrasto insorto tra i CT del PM, la nomina di un perito d’ufficio al di sopra delle parti. Preferiva risolvere il contrasto stesso con l’attribuire maggiore competenza ad uno dei clinici rispetto all’altro, addirittura conferendo valore diagnostico all’interpretazione dei sintomi manifestati dal figlio da parte della madre cui veniva in sostanza riconosciuta la capacità di riconoscere un addome acuto 15 ore prima che il medesimo venisse individuato da pediatra di turno e consulente.

La Corte d’Appello poi, comprendendo l’insostenibilità di tale ultimo riferimento, si limitava anch’essa ad attribuire maggior peso alla valutazione di un dei consulenti del PM, senza giustificare per quale motivo ciò facesse, e senza accogliere la richiesta di nominare un perito d’ufficio o almeno ascoltare il consulente tecnico del primario. Né manifestava l’intenzione di svolgere alcun raffronto con le puntuali e argomentate valutazioni del CT della pediatra.

Il principio stabilito dalla Cassazione

La Suprema Corte ha stabilito che “omettere l’apporto dialettico degli esperti antagonisti si traduce in una acritica adesione alle tesi di uno tra gli esperti con conseguente rinuncia al dovere di apprezzamento della prova. Ciò non può che valere anche (meglio sarebbe stato scrivere ‘soprattutto’)in caso di dissenso tra le opinioni di esperti della medesima parte…”

Il giudice di merito, pertanto, avrebbe dovuto risolvere il contrasto tra consulenti con argomentazioni pertinenti e non manifestamente illogiche e avrebbe dovuto anche comprendere nella valutazione i consulenti di parte che argomentavano in dissenso, senza ancorarsi esclusivamente e, si ripete, apoditticamente alle argomentazioni dei consulenti del PM, anzi addirittura alle argomentazioni di uno solo tra essi.

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