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Diritto di aborto e dovere di informazione: cassazione aumenta l’uno e l’altro

diritto di aborto

Stabilita la possibilità di abortire dopo il terzo mese in caso di malattia, anche quando il feto non sia malformato, il medico ha l’onere di avvisare dei rischi e della possibilità di interrompere la gravidanza

La norma:

La Corte di Cassazione con Sentenza emessa dopo pubblica udienza fissata su pedissequa richiesta della Procura Generale, proprio per la consapevolezza di innovare rispetto alla giurisprudenza precedente, è intervenuta sull’applicazione dell’art. 6 legge 194/1978, la quale recita: “L’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”

L’interpretazione sino ad oggi

Premesso che la puerpera valuta di per sé l’insostenibilità psicologica di partorire un figlio malformato, sino ad oggi la giurisprudenza ha interpretato la frase “quando siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” nel senso che il feto dovesse presentare un inizio di malformazione o anomalia, in corso di eventuale peggioramento. Questo il significato da sempre dato all’espressione processo patologico, utilizzata dal Legislatore del ’78 in vece di “patologie”.

In buona sostanza, perché alla donna fosse consentito di abortire dopo il terzo mese e prima dello sviluppo di una capacità autonoma di vita del feto fuori dal ventre materno (perché dopo tale sviluppo l’aborto è consentito solo se la gravidanza ed il parto pongano a rischio non lo sviluppo, ma la salute stessa della madre, situazione che considera realizzarsi dopo la 22° settimana), era necessario che il feto presentasse almeno un inizio di malformazione eventualmente passibile di peggioramento.

La vicenda che ha originato la Sentenza

Nel caso in questione una puerpera aveva scoperto di avere contratto dopo il terzo mese di gravidanza l’infezione da citomegalovirus, virus che provoca una malattia in grado di ingenerare malformazioni nel nascituro. Al momento della diagnosi però il feto era del tutto integro e sussisteva quindi solo una possibilità, pur elevata, che sviluppasse successivamente malformazioni.

Il medico che si dovette occupare del caso, non un ginecologo, ma un infettivologo, manifestò alla donna i rischi della situazione e contestualmente le rappresentò due alternative:

1) atteso che non essendo il feto malformato non era praticabile l’aborto in Italia (parliamo del 1999 e la Giurisprudenza era unanime sul punto), si sarebbe potuta recare in Inghilterra ove non esistevano simili limiti all’interruzione della gravidanza;

2) praticare una cura, all’epoca sperimentale, basata sull’infusione di immunoglobuline (cura che nel tempo ha dimostrato tutta la sua validità, ma che purtroppo non garantisce sempre un risultato positivo).

La puerpera scelse tale seconda possibilità, nel comprensibile ed ammirevole fine di salvare l’integrità del nascituro.

Purtroppo la cura non portò i risultati sperati ed il bambino nacque con gravissime patologie.

I genitori, dopo alcuni anni, intentarono causa al medico ed alla struttura ospedaliera nella quale esercitava il suo lavoro, assumendo, in punto di fatto, di non aver ricevuto adeguata informazione in ordine alla pericolosità della situazione e sostenendo, in punto di diritto, che l’essere in atto una infezione, che con alta probabilità avrebbe provocato malformazioni, avrebbe consentito l’aborto ai sensi dell’art. 6 della Legge 194.

In primo ed in secondo grado il merito veniva trascurato nelle sentenze, perché veniva ritenuto assorbente l’argomento relativo alla impossibilità di abortire, non essendo il feto malformato; cosicchè i genitori del bambino ricorrevano in Cassazione.

La innovativa sentenza della Cassazione

La terza sezione civile, con Sentenza del 27 ottobre 2020, depositata il 15 gennaio 2021 n. 653/21, Rel. Sestini, ha ritenuto che “il sintagma processo patologico individui una situazione biologica in divenire, che può assumere rilevanza per il solo fatto della sua esistenza e della sua attitudine a determinare ulteriori esiti patologici a prescindere dal fatto che tale potenzialità si sia già tradotta in atto”.

La Corte ha ritenuto, cioè, che ove la puerpera ed il feto presentino un’infezione comportante il rischio di “potenziali esiti menomanti, questa situazione costituisca a tutti gli effetti un “processo patologico”, tale da rientrare nella previsione di cui all’art 6 della Legge 194/78 e da consentire quindi l’aborto in caso di rischio per la salute, anche solo psichica della madre.

I principi stabiliti

La Cassazione ha rinviato la sentenza alla Corte d’Appello affinchè decida, accertando naturalmente se vi sia o meno stata corretta informazione da parte del medico, ma in applicazione dei seguenti principi.

A. Sufficienza del rischio di malformazioni: L’accertamento di processi patologici che possono provocare con apprezzabile grado di probabilità rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, consente il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell’art. 6 lettera b della Legge 194/78, laddove determini nella gestante che sia stata compiutamente informata dei rischi, un grave pericolo per la sua salute e psichica, da accertarsi in concreto caso per caso, ciò a prescindere dalla circostanza che l’anomalia o la malformazione si sia già prodotta

B. Responsabilità del medico che non informi correttamente del rischio:Il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate ad una patologia dalla medesima contratta, può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica.

Principi che devono essere considerati sostanzialmente vincolanti per i medici del settore.

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